Intervista a Padre Francesco Patton, Custode di Terra Santa

Padre Francesco, attraversiamo un periodo in cui il mondo è colpito da guerre, massacri e persecuzioni. La custodia di Terra Santa, che si estende sul territorio del Medio Oriente, è una testimonianza di pace. Qual è la situazione dei cristiani in queste terre?

I cristiani in queste terre, prima di tutto, sono una minoranza e in seguito alle varie guerre si sono ridotti ulteriormente. Prima della seconda guerra del Golfo, quella del 2002, in Iraq c’era un milione e mezzo di cristiani. Adesso ne sono rimasti meno di 200mila. Prima della guerra in Siria, i cristiani erano 2 milioni e 200mila mentre ora sono meno di mezzo milione. Questo fa capire come i conflitti, di fatto, fanno fuggire i cristiani in quanto parte più vulnerabile della società. In questi ultimi anni, i cristiani emigrano anche dalla Palestina, soprattutto per le difficoltà economiche legate al conflitto israelopalestinese. In Israele, invece, c’è una leggera crescita dei cristiani legata all’arrivo dei lavoratori immigrati, soprattutto asiatici. Quindi, la situazione dei cristiani in Medio Oriente è complessa. Dove ci sono guerre, i cristiani, essendo la parte debole, sono purtroppo tentati di andarsene. Dove invece ci sono possibilità economiche, i cristiani arrivano come lavoratori migranti.

Sembra che gli episodi di intolleranza nei confronti di cristiani, sia religiosi che laici, così come nei confronti dei civili palestinesi, siano in aumento, soprattutto da una certa parte di estremisti ebraici. Quali prospettive si pongono alla luce di questi episodi?

Diciamo che gli episodi di violenza sono cresciuti negli ultimi anni perché è cresciuta anche una cultura dell’intolleranza.
La cultura dell’intolleranza è stata anche favorita a livello legislativo. In particolare, nel 2018, la Knesset, il parlamento monocamerale d’Israele, ha approvato una basic law, cioè una legge che ha valore costituzionale, che dichiara Israele, Jewish State, cioè Stato Giudaico, quindi confessionale, con una connotazione specificamente religiosa e non solo etnica. Questa legge è stata approvata tra l’altro con il parere contrario dell’allora presidente dello Stato di Israele, Reuven Rivlin, il quale comprendeva la pericolosità culturale e politica di questa norma. Di fatto, questa legge ha dato alle componenti più radicali e più fondamentaliste dal punto di vista del nazionalismo religioso l’occasione di sentirsi libere nel compiere anche atti discriminatori e atti di violenza nei confronti delle minoranze. Noi stessi lo abbiamo denunciato più volte. Anche di recente, ho ricevuto segnalazioni da confratelli che vivono in santuari, magari isolati, che sono stati aggrediti verbalmente da coloni o da ebrei fondamentalisti, i quali, considerando quelle terre solamente loro, vogliono che i cristiani, siano essi religiosi o laici, se ne vadano. Essi dimenticano che il cristianesimo è nato qui, è nato tra l’altro per iniziativa di un ebreo che si chiamava Gesù di Nazareth. Dimenticano che il cristianesimo qui è sempre esistito ininterrottamente da duemila anni, e per quel che ci riguarda, dimenticano anche che come francescani siamo in questi luoghi da otto secoli in forma pacifica, avendo resistito alle pressioni e violenze anche dei Mamelucchi e degli Ottomani. Dunque, le pressioni attuali dei coloni non intimoriscono le nostre comunità impegnate nel portare la pace e sostegno agli ultimi. Non si può negare però che questo clima crei difficoltà.

Negli anni sono state create anche delle occasioni di dialogo e cooperazioni tra le varie comunità. Penso ad esempio al Parent Circle Families Forum che unisce i genitori israeliani e palestinesi che hanno perso i loro familiari a causa del conflitto o il Movimento Combattenti per la Pace. Ci può raccontare altri esempi che negli anni hanno segnato il dialogo e la cooperazione tra le varie anime di questi territori?

Nella società civile israeliana ci sono molti di questi gruppi, oltre quelli appena citati. Ci sono, ad esempio, interi studi legali che lavorano per la tutela dei diritti civili fondamentali dei palestinesi, assistendoli nei processi, anche in caso di arresto.
Esempio virtuoso è rappresentato dal Women of Faith for Peace, gruppo costituito da donne credenti, di varie religioni, che si incontrano regolarmente, unite nel desiderio comune di pace per loro ed i loro figli.
Noi, nel nostro piccolo, come frati francescani, portiamo avanti un’iniziativa che va in questa direzione, la scuola di musica, il Magnificat. Abbiamo più di 200 iscritti, l’80% dei nostri docenti sono ebrei israeliani mentre l’80% dei nostri studenti sono palestinesi, di fede sia cristiana che musulmana. Quindi, accogliamo all’interno di questa scuola ebrei, cristiani e musulmani, i quali non solo convivono pacificamente, ma sono di fatto a servizio gli uni degli altri.
Ancor oggi il Magnificat rappresenta una testimonianza di convivenza pacifica, nonostante, durante l’ultimo anno, dopo il 7 ottobre del 2023, sia stato difficile tenere insieme la realtà di questa scuola. E’ stato concreto il rischio che l’odio irrazionale scatenato dal tremendo attacco terroristico e dalla risposta militare sproporzionata entrasse anche dentro la nostra scuola, avvelenando il clima di convivenza, di collaborazione, di accettazione reciproca che c’era tra le persone.
Inoltre, nell’ultimo anno è emersa la figura di Rachel Golberg-Polin, ebrea di origine americana, portavoce del gruppo principale delle famiglie degli ostaggi del 7 ottobre, la quale ha utilizzato, negli ultimi mesi, non solo le parole più sagge, ma anche più umane in grado di orientare anche un futuro di speranza.
Mi ha colpito molto la testimonianza della signora Golberg-Polin, la quale ha perso suo figlio, ucciso proprio mentre sembrava imminente la sua liberazione. Ebbene, nonostante il profondo dolore, lei ha avuto il coraggio e la forza di affermare pubblicamente che non bisogna mettere la sofferenza degli uni in concorrenza con la sofferenza degli altri, perché ogni sofferenza ha valore e ogni sofferenza ha dignità. Il riconoscimento della sofferenza dell’altro è la strada per condurre all’accettazione reciproca e ad una piena pacificazione tra Israeliani e Palestinesi.

Che informazioni giungono dal teatro siriano in queste ultime settimane? Si riuscirà, padre Francesco, a fare della nuova Siria un luogo di convivenza caratterizzato proprio dalla diversità etnica e religiosa?

Molto dipenderà da quello che succederà in queste settimane. Di fatto, L’ex jihadista Al-Jolani, colui che ha guidato la rivoluzione, ha promesso di rispettare le minoranze, anche quella cristiana, ad esempio, manifestando la volontà di non imporre alle donne l’obbligo del velo.
Al-Jolani aveva già iniziato questo tipo di politica nella regione di Idlib, dove noi, come francescani, siamo rimasti anche durante tutto il periodo della guerra civile e dove i frati hanno avuto modo anche di dialogare con lui nel corso di questi dieci anni. Probabilmente questo dialogo è servito a far comprendere le ragioni della presenza dei cristiani nell’area; tant’è che negli ultimi anni sono state anche restituite chiese e proprietà sequestrate dai jihadisti e scuole che erano state nazionalizzate nel 1967 da Hafiz al-Asad.
La maggiore stabilizzazione dell’area passa dalla pacificazione dei vari gruppi ed anime presenti sul territorio siriano, tenendo a freno, soprattutto, le fazioni tendenzialmente più fanatiche, estremiste e fondamentaliste.
L’auspicio è che possa nascere una Siria nuova, realizzando quello che in questi giorni si sta promettendo, e cioè un governo di transizione fino a marzo, con l’elaborazione di una nuova Costituzione col contributo di tutti e successivamente libere elezioni.

Come auspicio del nuovo anno, che messaggio si sente di inviare alle popolazioni della Terrasanta e del mondo?

Che continuino a fidarsi di quel bambino che è nato a Betlemme e quindi si ricordino che Dio non vince le sue battaglie con gli eserciti, ma sconfiggendo il male con un bambino.