Intervista a Patrizio Fondi, diplomatico di carriera con il rango di ambasciatore. È stato ambasciatore dell’Unione europea negli Emirati Arabi Uniti e ambasciatore d’Italia in Giordania.

La Guerra, dopo aver coinvolto Israele, la striscia di Gaza, Iran, Libano e Siria rischia di allargarsi a tutta la Regione coinvolgendo Iraq, Giordania sino ad arrivare ai paesi del Golfo?

Sebbene le dinamiche politiche in Medio Oriente siano spesso imprevedibili, una serie di ragioni inducono a ritenere che il rischio di espansione del conflitto sia limitato.
Da un lato, il 2024 ha visto un drastico ridimensionamento del cd. “asse della resistenza” (tutto sciita, tranne Hamas) a guida iraniana, ora in grande difficolta’. Hamas e Hezbollah sono state fortemente indebolite dagli attacchi israeliani, il regime di Assad in Siria è crollato, le forze di mobilitazione popolare sciite in Iraq sono state frenate dal Governo locale e in Yemen gli Houti sono sotto il fuoco dell’Occidente, preoccupato per la loro minaccia ai traffici marittimi. Per cui Teheran è in una posizione difensiva e non ha interesse all’allargamento delle ostilita’, temendo oltretutto lo scatenarsi di turbolenze interne.
Dall’ altro lato, anche per la Giordania una guerra sarebbe molto pericolosa, tenuto conto che il Re deve mantenere un difficile equilibrio tra la maggioritaria componente palestinese della popolazione del Paese (molto ostile ad Israele e con simpatie verso i Fratelli Musulmani) e il segmento giordano autoctono. A loro volta, i Paesi del Golfo, a prevalenza sunnita, considerano come una priorita’ assoluta l’assenza di sviluppi bellici, essendo il loro modello di sviluppo basato soprattutto sull’ esportazione di energia, sul turismo, sulla finanza e il commercio in generale, elementi che verrebbero gravemente compromessi da un conflitto generalizzato. Pertanto, il loro obiettivo comune e’ – come del resto per l’Egitto – la stabilita’ e la sicurezza dell’area.
Inoltre, gli attori della regione sono tutti in attesa delle mosse del nuovo Presidente Trump, il quale, durante il suo primo mandato, si è caratterizzato per una impostazione transattiva e non bellicista in politica estera, volta piuttosto a favorire accordi. Probabilmente, unicamente nell’ ipotesi di una accelerazione del programma nucleare da parte di Teheran per ottenere la bomba atomica, gli USA potrebbero pensare ad un attacco preventivo – d’intesa con Tel Aviv – per distruggere gli impianti iraniani con i potenti ordigni speciali di cui solo l’apparato militare americano ha la disponibilita’.

La Turchia ed il Qatar sono due dei paesi più attivi politicamente nell’attuale scenario entrambi legati al movimento dei Fratelli Musulmani. Quale è il ruolo dell’Islam politico in Medio Oriente?

Nel contesto attuale, i Fratelli Musulmani, movimento sunnita nato con l’obiettivo di costituire società guidate dai valori della religione musulmana, sono in una fase di riscossa – dopo la grave crisi seguita alla destituzione del Presidente islamista Morsi in Egitto ad opera del Generale Al-Sisi – proprio a causa dell’indebolimento della componente sciita in Medio Oriente dovuta alle sconfitte subite dall’Iran e dai suoi principali alleati.
Il segno piu’ evidente e’ stata la caduta di Assad e la presa del potere in Siria del gruppo sunnita Hayat Tahrir al Sham (Hts) e di altri analoghi gruppi islamisti, appoggiati dalla Turchia, che ha abilmente approfittato dei problemi in cui sono al momento impantanati Russia e Iran, puntellatori del vecchio regime siriano.
La Turchia ed il Qatar da sempre hanno sostenuto il diffondersi della politica dei Fratelli Musulmani nella regione, il primo come espressione politica diretta del movimento, mentre la televisione di Stato qatarina Al Jazeera rappresenta da decenni uno dei maggiori megafoni dell’islam politico. Ankara inoltre è impegnata in una politica neo-ottomana volta ad allargare la propria area di influenza dal mediterraneo meridionale e orientale alla penisola arabica (ha installato una base militare in Qatar) fino all’area centro asiatica, conservando al tempo stesso buoni rapporti anche con la Russia (si pensi alla sua mediazione sul grano ucraino) nonostante la sua appartenenza alla NATO. Il Qatar ha da sempre adottato una spregiudicata politica di dialogo con tutti, anche gli attori piu’ controversi, tanto da ricevere spesso accuse di ambiguita’; tale approccio ha peraltro consentito a Doha di svolgere il ruolo di mediatore o ospite di negoziati internazionali in varie occasioni, come per l’Afghanistan (tra USA e Talibani) o piu’ recentemente per Gaza (in relazione alle trattative sui cessate-il-fuoco e la liberazione degli ostaggi). I Qatarini hanno inoltre un rapporto obbligato e privilegiato con l’Iran, essendo il loro immenso giacimento di gas (North Field) contiguo al simile giacimento iraniano di South Pars, che costituiscono nel loro insieme una delle più importanti riserve di gas del mondo. Il Qatar, infine, ospita la maggiore base militare statunitense in Medio Oriente, da cui gli USA fanno partire gli aerei per bombardare i terroristi della regione. Tutti elementi che consentono ad uno Stato cosi’ piccolo di giocare un cruciale ruolo di ponte che ne fa un protagonista della scena mondiale.
Non va tuttavia dimenticato che i Fratelli Musulmani sono tuttora visti con sospetto da molti importanti Paesi sunniti moderati, quali l’Egitto, la Giordania, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e il Bahrein. Tale diffidenza ha addirittura causato negli anni passati un lungo periodo di isolamento del Qatar da parte dei menzionati Paesi proprio a causa della postura di Doha troppo vicina alla Fratellanza Musulmana. Le divisioni interne al gruppo sunnita sono pero’ controbilanciate dalla necessità di stabilità da parte dei Paesi che ne fanno parte, tutti interessati a preservare la pace per non danneggiare gli importanti fattori economici (turismo, energia, finanza, commercio) che – pur in misura diversa – sono alla base del benessere delle rispettive popolazioni e del relativo consenso.

Nelle guerre, spesso, gli interessi di parte strumentalizzano la religione al fine di estremizzare le posizioni ed acuire il conflitto. L’instabilità della Regione potrebbe essere la spinta per il rafforzamento di organizzazioni terroristiche islamiche?

Ormai il terrorismo nella regione mediorientale – e non solo – e’ un fenomeno endemico, con il quale le nostre societa’ sono costrette ad imparare a convivere, cercando di limitarne gli effetti. Non c’e’ dubbio che l’instabilita’ costituisca un ambiente favorevole all’ esistenza di sacche terroristiche e al loro possibile rafforzamento, anche se la sconfitta nel 2017 del cd. Stato Islamico instaurato dall’ ISIL ha inferto un duro colpo al prestigio e all’attrattivita’ dei gruppi terroristi in generale. In ogni caso, la guardia non va abbassata, tenuto anche conto che tali organizzazioni spesso tendono a modificare la propria natura e a rigenerarsi in altri territori caratterizzati da fragilita’ istituzionali e sociali, come sta avvenendo ad esempio in Asia Centrale e soprattutto nel Sahel Africano.
Al riguardo, credo sia importante – al fine di combattere ogni organizzazione terroristica nel modo piu’ efficace – avere ben chiare in mente le distinzioni tra i vari tipi di gruppi, evitando semplificazioni e comparazioni non appropriate, spesso dettate da intenti propagandistici. Ad esempio, Hamas è ben diversa dall’ ISIL, essendo un movimento terrorista nazionalistico, mirante alla liberazione di uno specifico territorio denominato Palestina lottando contro lo Stato di Israele (così come l’ETA in Spagna e l’IRA in Irlanda del Nord). Mentre l’ISIL (detto anche ISIS o Daesh) è un’organizzazione terroristica che si propone come obiettivo la jihad violenta globale, volta a costruire un califfato islamico mondiale, combattendo contro tutti i Paesi occidentali ed imponendo la Sharia ad ogni abitante del pianeta; l’ ISIL deve confrontarsi con molti altri movimenti analoghi, quale ad esempio Al Qaeda, con i quali e’ in competizione ma con cui condivide la lotta alla cultura occidentale. Al tempo stesso, puo’ capitare che i vari gruppi jiadhisti aderiscano, secondo il momento, a differenti sigle terroristiche. Ne e’ un classico esempio il gia’ menzionato gruppo siriano Hayat Tahrir al Sham (Hts), che in passato e’ stato legato in qualche modo sia ad Al Qaeda che all ‘ ISIL. Da cui la diffidenza nei suoi confronti ora che cerca di mostrarsi piu’ moderato; la grossa incognita e’ capire se i miliziani del gruppo sono disposti ad accettare gli apparenti buoni propositi – conciliatori, tolleranti e inclusivi – del loro capo Al-Jholani.

Il Mediterraneo allargato rappresenta un’area di grande interesse per ragioni politiche, economiche ed energetiche. Come agisce la diplomazia europea nella regione?

A seguito dell’uscita della prima Amministrazione Trump dall’accordo relativo al programma nucleare iraniano nel 2018, l’Unione Europea – anziche’ assecondare la propria tradizionale vocazione di mediatore, mantenendo il filo del dialogo con Teheran per essere pronta a fungere da ponte tra le parti contrapposte al momento opportuno – e’ rimasta sostanzialmente inerte, contribuendo anch’essa ad isolare l’Iran, indebolendo cosi’ le fazioni iraniane moderate a vantaggio dei conservatori radicali, che hanno trasformato il Paese in uno Stato sempre piu’ problematico e irrispettoso delle regole di convivenza internazionale. Tale rinuncia europea al proprio ruolo pacificatore si pone in netto contrasto all’ impegno dimostrato in passato sotto questo aspetto, che le ha consentito di ottenere nel 2012 il premio Nobel per la pace come campione di fraternita’, nel riconoscimento della straordinaria funzione di stabilizzazione svolta dall’UE per trasformare l’Europa da continente di guerra in continente di pace.
La medesima inerzia si e’ verificata di fronte al conflitto in Ucraina, rispetto al quale l’Unione non ha messo in campo alcuna iniziativa diplomatica per incoraggiare la creazione di un canale di comunicazione serio tra Russia e USA al fine di trovare una rapida soluzione al conflitto, dopo i pur doverosi invii di armi e approvazioni di sanzioni contro Mosca, a seguito della sua aggressione militare a Kiev. Paradossalmente, per tutta una serie di ragioni strutturali (mancati progressi del processo di integrazione tra gli Stati membri dell’Unione; carenza di leadership all’ altezza delle sfide epocali; lentezza decisionale; difficolta’ a pianificare a lungo termine…), l’Europa, con una popolazione di 500 milioni di persone, non riesce ad esprimere una posizione diplomatica forte, soprattutto nelle situazioni belliche.

In che modo l’Italia e l’Europa possono ritagliarsi un ruolo più incisivo per promuovere un maggiore impegno volto alla pace nell’area?

E’ urgente porre mano a tali manchevolezze, se si vuole evitare una crescente irrilevanza nell’arena mondiale. Per esempio, cominciando a realizzare le cd. “cooperazioni rafforzate” tra Stati membri nel campo della politica estera, della difesa comune e dell’economia, come si e’ fatto per la moneta unica e il meccanismo “Schengen” di libera circolazione. Ma la cosa piu’ importante e urgente e’ recuperare l’attitudine di mediazione.
I Paesi “cattivi” non vanno ignorati e isolati, ma “engaged”, per usare il termine anglosassone che indica un’interazione continua con qualcuno. Se in un gruppo di bambini si trascura il piu’ problematico, lo si spinge a fare peggio, mentre parlargli e tentare di coinvolgerlo ne limita i comportamenti aggressivi. Oggi l’Occidente tende a considerare inutile e pericoloso il dialogo con chi non condivide i suoi valori e in tal modo ne favorisce non solo la radicalizzazione, ma anche l’aggregazione con altri attori problematici, a scapito della stabilita’ generale. Il Cardinal Richelieu, statista francese del XVII secolo, che di guerra e diplomazia un po’ se ne intendeva, soleva dire che “negoziare continuamente, apertamente e segretamente, ovunque, persino laddove non si ottengano risultati immediati e ancor piu’ dove non traspaiano prospettive future, e’ cosa assolutamente necessaria per il bene degli Stati”. Lo ascolteremo?