Gian Carlo Blangiardo è presidente dell’Istat dal 4 febbraio 2019. Inizia la carriera universitaria nel 1973 come borsista di Statistica in Università Cattolica e, dal 1975 come ricercatore, presso l’Università degli studi di Milano. Nella stessa università, è nominato Professore incaricato (1977-1981), Professore associato (1981-1994) e Professore ordinario (1994-1998). Dal 1998 si trasferisce nell’Università di Milano “Bicocca”. I suoi interessi di ricerca hanno riguardato la Metodologia statistica, la Demografia e le Statistiche sociali. Svolge da molti anni collaborazioni scientifiche con diverse istituzioni. Membro di diversi Comitati nazionali e regionali, che si occupano, o si sono occupati, di dinamiche e trasformazioni demografiche, di esclusione sociale e povertà, è autore di diversi Rapporti su questi temi e su immigrazione e integrazione. È autore di oltre 250 pubblicazioni scientifiche. Scrive, e ha scritto, su numerose riviste scientifiche e collabora con i quotidiani «Il Sole24ore», «Avvenire», «Eco di Bergamo», «Il Sussidiario.net».

Professore, quali sono gli elementi più salienti e le cause di un fenomeno così complesso come quello della denatalità? Come si colloca il nostro paese nel contesto europeo?

Il quadro è che da ormai quindici anni il numero dei nati è in calo. Dal 2014 ogni anno registriamo il record più basso nella storia d’Italia, nel 2021 siamo arrivati a soli 399 mila nati e anche per la fine del 2022 ci aspettiamo un altro record negativo. Di fronte a questa situazione si deve guardare cosa succede altrove: l’Africa, ad esempio, gioca su un altro livello rispetto a noi e all’Europa in generale. Ma l’Europa è indietro anche rispetto agli Stati Uniti, che registrano valori non brillanti ma comunque più positivi, circa 2 figli per donna, mentre in Italia siamo a 1,25. Per quanto riguarda il contesto europeo: i paesi del Mediterraneo come Spagna, Grecia e Italia segnano i livelli più bassi. La Francia, invece, è tra i primi della classe, poiché da sempre ha un’attenzione particolare a questi temi. Valori più alti dei nostri si registrano anche tra i paesi scandinavi. E anche la Germania, che aveva valori bassi, ha conosciuto recentemente un significativo recupero.

Tra le cause del perché oggi non si fanno figli non c’è tanto il fatto che è venuto a mancare il desiderio di genitorialità, quanto piuttosto che in generale si sono allungati i tempi delle diverse fasi della vita. Potremmo dire che c’è stata una trasformazione delle tempistiche. Si studia di più, si inizia a lavorare e ci si sposa più tardi e si tende a rischiare meno in tempi di incertezza. Quest’ultimo punto è di particolare interesse poiché suggerisce l’idea di una diversa percezione del rischio all’interno della società rispetto ai decenni precedenti. Questo “gioco” fa sì che si pensi ai figli quando non si è più giovanissimi. La capacità riproduttiva è quindi ridotta e i tempi con cui si decide di fare il secondo figlio o il terzo sono più ristretti. Questo porta spesso a rinunciare, poiché ci si rende conto delle difficoltà che si incontrano nella gestione dei carichi familiari in età più avanzata. E, inoltre, i figli costano, e le donne che lavorano e legittimamente maturano aspettative di carriera non sempre riescono ad avere collaborazione da parte del partner.

Anche rispetto al quadro da lei delineato, che correlazione possiamo osservare tra il fenomeno della denatalità e gli andamenti nel mercato del lavoro? Quali azioni si possono adottare per riequilibrare il mercato?

La diagnosi è chiara: perdiamo forza lavoro a vista d’occhio. Per semplificare possiamo immaginare il mercato del lavoro come un serbatoio che è alimentato da un flusso di persone in entrata e da un flusso di altre in uscita. Se il canale di ingresso si riduce, succede che le uscite rischiano di non essere rimpiazzate. Al tempo stesso, coloro che rimangono sul mercato invecchiano generando l’aumento dell’età delle generazioni presenti sui luoghi di lavoro. Le previsioni ISTAT per i prossimi 40 anni ci dicono che la popolazione di età tra i 20 e 66 anni andrà verso un ridimensionamento di circa 11 milioni di persone. Tutto ciò provoca, e provocherà sempre più in futuro, anche cambiamenti di ordine qualitativo riguardo l’obsolescenza delle competenze e l’erosione della capacità produttiva delle persone.

Per invertire una tendenza non facile da fermare occorre adottare diverse azioni. Dobbiamo continuare a puntare su un maggiore coinvolgimento delle donne nel mercato del lavoro: da questo punto di vista, la discrepanza dei tassi di attività tra donne e uomini è ancora molto elevata, anche nel confronto europeo. Inoltre, al contrario di quanto spesso si pensa, i paesi che hanno alti livelli di lavoro femminile hanno anche livelli fecondità in genere più elevati dei nostri, dando prova del fatto che famiglia e lavoro possono conciliarsi: basta volerlo e basta creare le condizioni adeguate. Un’altra leva di intervento è quella relativa al trattenimento delle persone in età avanzata nel mercato del lavoro e al rapporto con i giovani. Bisogna pensare a un intervento concordato, libero, volontario e partecipato per consentire a coloro che vogliono rimanere nel mercato del lavoro anche dopo avere superato i confini di pensionamento di farlo, provando anche a progettare modelli di interscambio con le nuove generazioni per trasmettere loro competenze, esperienza e supportarli nelle fasi di ingresso nel mercato del lavoro. Non abbiamo altra strada che la creazione di alleanze e ponti tra generazioni.

Guardando al sistema sanitario nazionale, come possiamo inquadrare gli effetti della denatalità? E quali sono i correttivi a livello gestionale e di sistema?

Il sistema sanitario nazionale esce provato dalla pandemia, che ci auguriamo essere stata una parentesi sfortunata. Gli effetti diretti e indiretti sono stati forti: i morti sono aumentati e i nuovi nati sono diminuiti. In questa cornice il tema della sanità è inevitabilmente correlato a quello dell’invecchiamento. Al netto della “pausa Covid”, l’aspettativa di vita è andata avanti e riteniamo sia destinata ancora a crescere. Siamo quindi di fronte a una vita che si allunga e ad una composizione demografica che si trasforma a favore della popolazione più anziana. Non a caso le generazioni più numerose si stanno affacciando alle fasce di età più avanzate. Per fare un esempio, le persone nate negli anni Sessanta, che appartengono a una delle generazioni più numerose, tra non molto avranno più di 65 anni. Già oggi abbiamo poco più di 800mila persone con più di 90 anni e arriveremo a 2 milioni e 200mila nel 2070, e queste sono tutte persone che sono già nate. Per gestire la complessa trasformazione della demografia del nostro Paese occorre quindi un sistema sanitario snello, efficiente, economico, accessibile e distribuito capillarmente sul territorio. La sanità territoriale deve però integrarsi anche con la famiglia che, tuttavia, è spesso indebolita da reti di rapporti e legami che si riducono sempre più, e richiamo qui all’importanza di interventi significativi sul fronte del welfare pubblico e del privato sociale.

In riferimento al fenomeno dell’immigrazione, che rapporto c’è con il tema della denatalità? Al netto delle vicende politiche, che azioni andrebbero introdotte per creare una sinergia positiva tra i due fenomeni?

Sul tema immigrazione occorre fare chiarezza. Con riferimento al tema demografico e alla forza lavoro credere che gli arrivi delle persone via mare possano essere la chiave per risolvere il problema è una prospettiva eccessivamente ottimistica. Anche perché in molti casi si tratta di persone che non hanno intenzione di rimanere nel nostro Paese, considerandolo semplicemente come primo approdo di transito. Il discorso del contributo dell’immigrazione in relazione al tema della denatalità e del mercato del lavoro deve essere piuttosto impostato in termini di collaborazione con i Paesi di provenienza. È vero che per certi settori come quello turistico o della ristorazione, ad esempio, ci sarebbe bisogno di più mano d’opera, ma anche in questo caso non si può prescindere da un principio di regolamentazione e programmazione dei flussi. Sul fronte del contributo alla natalità, teniamo conto che oggi in Italia ci sono 5 milioni e 200 mila stranieri e che circa 1 milione e 600 mila persone ex straniere che ora sono cittadini italiani. Noi siamo infatti tra i Paesi europei in cui si riconoscono più cittadinanze. Quindi va da sé che una importante quota di nascite sia attribuibile a tale componente. Se conteggiamo i nuovi nati stranieri vediamo che nel 2021 erano intorno ai 60 mila, un contributo importante nel complesso dei 399 mila nati nell’anno, ma rileviamo altresì come si tratti di circa 20 mila nati in meno rispetto al 2012. Un dato che certifica come anche queste persone siano in difficoltà e che la componente straniera resta senz’altro un contributo importante ma non certo risolutivo per l’ordine dei problemi che dobbiamo affrontare.

Il sostegno alla natalità passa inevitabilmente da un sostegno alle famiglie. Pensando anche al recente intervento di riforma del Family Act, su quali servizi e misure deve puntare la politica per supportare le famiglie e le giovani coppie con figli, anche in un’ottica di conciliazione?

Si tratta di offrire alle persone l’opportunità di esprimere il proprio desiderio di genitorialità, che è presente nel nostro Paese, anche quando non si trovano nelle condizioni economiche per farlo. Gli ordini di intervento sono tre: economico, organizzativo e gestionale. Il primo aspetto fa ovviamente riferimento alle risorse che occorre garantire alle famiglie per far sì che queste possano a loro volta avere fondi da spendere per i propri figli, dimostrando loro che le istituzioni sono presenti anche quando si parla di soldi. Il secondo aspetto fa riferimento alla conciliazione dei tempi vita-lavoro, ossia a tutte quelle politiche di welfare aziendale e territoriale che permettono un reale equilibrio nella gestione dei carichi familiari all’interno della coppia. Il terzo riguarda l’investimento massivo, a livello nazionale e locale, su servizi come ad esempio gli asili nido, per garantire alle famiglie luoghi e persone che si prendano cura dei figli mentre i genitori sono al lavoro o sono impegnati in altre attività.

Dal punto di vista politico, un gradino importante su questi fronti è stato il Family Act. L’assegno universale ha permesso di fare un primo grande passo avanti verso il supporto alla natalità in una prospettiva comunitaria ed inclusiva di tutte le fasce sociali. Ma si tratta solo del primo passo che deve avere un seguito e che va affiancato da una azione di supporto dal punto di vista culturale. Occorre infatti favorire la disponibilità della società e delle persone nel dare riconoscimento e gratificazione a chi fa figli, non solo “per loro stessi”, ma anche “per tutti noi”. Su questo ci vorrà parecchia creatività e fantasia.